Diritto Penale

Morti da amianto e prova del nesso causale. (Corte di Cassazione, Sezione Penale n. 12151 del 15.04.2020)

Morti da amianto e prova del [..]

  • Data:20 Ottobre

 

La vicenda in esame riguardava una lavoratrice, addetta al montaggio e smontaggio di arredi di veicoli ferroviari, la quale riportava lesioni personalissime a causa dell'esposizione a particelle di amianto.

La donna era stata affetta da mesotelioma pleurico maligno che le cagionava la morte.

In primo grado ed in sede di appello i legali rappresentanti di una Spa venivano condannati per il reato di omicidio colposo per aver cooperato con negligenza, imprudenza ed imperizia violando le norme in materia di sicurezza e prevenzione sul luogo di lavoro.

Gli imputati, in particolare, venivano ritenuti responsabili di non aver adottato misure precauzionali idonee ad impedire la diffusione e l'inalazione delle fibre dannose dal 1981, data in cui iniziava l'esposizione della donna all'amianto.

Il caso giungeva dinanzi alla Suprema Corte dove gli imputati lamentavano, tra le altre cose, l'inammissibilità del verbale di sommarie informazioni testimoniali, la sussistenza del nesso di causa tra l'evento morte e la condotta degli stessi nonché la mancata sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria.

La Corte rigettava le doglianze sollevate dagli imputati affermando, senza alcun dubbio, l'origine della malattia professionale

Nello specifico gli Ermellini evidenziavano come, a parere degli esperti, la patologia in questione insorge anche in lavoratori esposti a bassissime dosi di polveri.

Nel caso in esame il nesso di causa tra l'esposizione all'amianto e la patologia della lavoratrice era stato accertato in modo diretto con esclusione di ogni altro elemento causale alternativo di innesco della malattia.

La Corte, inoltre, non ha ritenuto prevalenti le circostanze attenuanti di cui all'art 62 c.p. rispetto alle gravi inadempienze riscontrate nel periodo in cui la donna risultava essere stata esposta alle polveri dannose.

In merito, poi, alla doglianza relativa alla sostituzione della pena detentiva, gli Ermellini, anche in considerazione della motivazione della sentenza, ritenevano la pena pecuniaria non adeguata alla gravità della condotta esaminata.

 

Commento dell'Avv. Carlo Cavalletti

(abilitato alla difesa dinanzi alla Corte di Cassazione)

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Condannato il padre per omesso mantenimento se non prova il suo stato di precariertà. (Corte di Cassazione, Sezione Civile n. 33932 del 13.09.2021)

Condannato il padre per omesso mantenimento [..]

  • Data:13 Ottobre

 

Il caso in esame riguardava un procedimento per violazione degli obblighi di assistenza familiare.

Nello specifico un padre veniva condannato in appello a 4 mesi di reclusione e alla multa pari ad € 400,00 per aver commesso il reato di cui all'art. 570 comma 2, n. 2. c.p.

L'imputato non aveva, infatti, corrisposto l'assegno di mantenimento per il figlio facendogli venire meno i mezzi di sussistenza.

La Corte disponeva la condanna in favore della parte civile del risarcimento del danno pari ad € 5.300,00, adempimento a cui veniva subordinato il beneficio della sospensione condizionale della pena.

L'imputato contestava la decisione dinanzi alla Suprema Corte.

L'uomo rilevava il mancato accertamento delle sue condizioni economiche, il mancato esame della contestazione relativa alla subordinazione della sospensione condizionale della pena al pagamento del risarcimento alla parte civile. Il ricorrente sosteneva, infatti, che dalla documentazione emergeva la sua situazione economica; inoltre contestava il reato per mancanza dell'elemento soggettivo ed oggettivo.

Gli Ermellini, ritenendo i motivi generici ed infondati, rigettavano il ricorso.

Per la Suprema Corte, infatti, il reato contestato era integrato in tutti i suoi elementi.

La Corte riteneva condivisibile quanto statuito dalla corte di merito secondo la quale, nella minore età del figlio è insito lo stato di bisogno, posto che  lo stesso non è in grado di provvedere da solo alle proprie necessità.

Veniva, altresì, evidenziato che l'imputato non aveva dimostrato la sua impossibilità a pagare l'assegno di mantenimento per il figlio.

In merito poi alla sospensione condizionale della pena e al risarcimento del danno alla parte civile l'uomo non aveva, comunque, provato il suo stato di impossidenza o la precarietà della sua condizione economica.

Commento dell'Avv. Carlo Cavalletti

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Lesioni al pedone e responsabilità dell'automobilista. (Corte di Cassazione, Sezione Penale n. 32963 del 07.09.2021).

Lesioni al pedone e responsabilità dell'automobilista [..]

  • Data:02 Ottobre

 

Il caso aveva ad oggetto un sinistro stradale avvenuto tra un motociclista e un pedone.

La Corte di Appello confermava la condanna del motociclista per il reato di cui all'art. 589 c.p. per aver investito il pedone.

La vicenda veniva sottoposta all'attenzione della Suprema Corte dinanzi alla quale il soggetto ritenuto responsabile presentava ricorso.

Parte ricorrente deduceva violazione e vizio di motivazione rilevando come le dichiarazioni dei testimoni e del marito della vittima, il quale dichiarava di aver iniziato l'attraversamento con la moglie a semaforo verde, fossero contrastanti.

La condanna di secondo grado si basava sulla velocità tenuta dal motociclista ritenuta eccessiva in riferimento allo stato dei luoghi senza però aver considerato la condotta della vittima.

Secondo parte ricorrente il superamento del limite di velocità non può fondare un giudizio di responsabilità, occorre accertare se l'impatto si sarebbe verificato anche con una velocità più moderata.

Il ricorrente chiedeva, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata ritenendo che la sola velocità non fosse idonea a fondare la sua responsabilità.

Gli Ermellini, ritenendo il motivo non fondato, rigettavano il ricorso.

Veniva accolto il ricorso per un motivo diverso da quello in esame ovvero in relazione alla mancata concessione del beneficio della non menzione all'imputato.

Per quanto riguarda l'oggetto del giudizio la Corte osservava che, nel caso in esame, erano stati esaminati i profili di colpa attinenti alla condotta dell'automobilista e risultanti dagli accertamenti svolti, quali la velocità, il mancato arresto del veicolo, la condotta di guida imprudente e negligente.

In sostanza, per gli Ermellini, l'aver superato il limite di velocità, dinanzi ad una condotta imprudente della vittima, può, comunque, fondare la responsabilità del soggetto posto alla guida.

La Corte ha, altresì, ricordato che il giudice di legittimità non ha competenza sul contenuto della prova ma interviene quale giudice della motivazione e dell'osservanza della legge.

 

Commento dell'Avv. Carlo Cavalletti

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Reato di maltrattamenti in famiglia anche se la convivenza è cessata. (Corte di Cassazione, Sezione Penale n. 30129 del 02.08.2021)

Reato di maltrattamenti in famiglia anche se [..]

  • Data:16 Settembre

 

Un uomo veniva ritenuto responsabile del reato di maltrattamenti in famiglia sia in primo che in secondo grado.

Nel caso di specie l'imputato commetteva il reato ai danni della convivente con l'aggravante di aver agito in presenza delle due figlie minori.

L'imputato, tramite difensore, ricorreva dinanzi alla Suprema Corte dove contestava, tra le altre cose, il reato di maltrattamenti in famiglia in quanto la convivenza risultava cessata, la mancata assunzione della testimonianza a discarico da parte della figlia nonché la riconducibilità dei messaggi estorsivi attribuiti all'imputato e rientranti nel reato di minaccia non procedibile per assenza di querela.

A parere del ricorrente, dalla cessazione della convivenza, essendo venuta meno la convivenza di fatto, era ravvisabile il reato di atti persecutori.

La Cassazione, ritenendo infondate tutte le doglianze sollevate, rigettava il ricorso dell'imputato.

In particolare gli Ermellini si soffermavano sul primo motivo ed in primo luogo chiarivano la differenza tra il reato di maltrattamenti e il reato di atti persecutori.

Il reato di maltrattamenti in famiglia è un reato proprio e l'ambito applicativo dipende dall'estensione dei rapporti basati su vincoli familiari senza necessità di convivenza o di stabile coabitazione.

Il reato di atti persecutori, invece, è un reato contro la persona e può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia e  non presuppone l'esistenza di relazioni interpersonali specifiche.

Detto ciò gli Ermellini affermavano il principio in base al quale: "le condotte vessatorie realizzate in caso di cessazione della convivenza con la vittima, sia nel caso di separazione legale o di divorzio, sia nel caso di interruzione della convivenza allorché si tratti di relazione di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non anche quello di atti persecutori, allorché i vincoli di solidarietà derivanti dal precedente rapporto intercorso tra le parti non più conviventi, nascenti dal coniugio, dalla relazione more uxorio o dalla filiazione, permangano integri o comunque solidi ed abituali nonostante il venir meno della convivenza".

                                                                                                                                                                                                                                       

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